Demografia ed ecologia – Umanità Nova

“… comunque siamo in troppi su questo pianeta.”

Quando si parla di ecologia, spesso la discussione va’ a finire con la frase: “Comunque, siamo in troppi su questo pianeta.” Questa è un’affermazione che mette in correlazione scienze della demografia e dell’ecologia.

Carl Schmitt, teorico della sovranità e dello stato d’eccezione, giustamente affermava di come le regole si debbano giudicare dalle eccezioni; affermazione che, riletta con lo sguardo libertario, si dovrebbe tradurre nella domanda: “cui prodest?”, “chi privilegia?”.


Gli studi sociologici hanno ben messo in evidenza la correlazione inversamente proporzionale fra famiglie numerose e sicurezza sociale, ovvero redistribuzione del reddito, educazione universale, sanità universale.

Siccome qui parliamo di impatto ecologico quantitativo dell’essere umano nell’ecosistema terrestre che lo circonda, dovremmo ricordarci che il peso di questo impatto è disomogeneo: città vs campagna, ceto ricco vs medio vs povero, produzione vs consumo. L’affermazione “siamo in troppi” si riferisce proprio a questi ultimi, i consumatori: troppe bocche da sfamare, troppe automobili, …

Ai nostri occhi eurocentrici è meglio avere pochi figli e più denari e cure. Questo perché corrisponde al numero ottimale per la nostra società in questo momento. Tradotto in pratica si parlerebbe soprattutto di nazioni in crescita come Pakistan, India, Nigeria, Indonesia… Insomma, chi dovrebbe figliare meno sarebbero soprattutto le popolazioni del “sud” del mondo, specie quelle che hanno subito la violenza del colonialismo e la conseguente impiantazione coatta del capitalismo e del libero mercato, con tutti gli effetti nefasti che ne derivano. Popolazioni povere, perlopiù rurali, in cui la mortalità infantile è altissima, molto religiose, in cui i diritti politici e sociali sono perlopiù negati.

Nel sud del mondo, più mani corrispondono ancora a più soldi per l’autosostentamento del nucleo familiare, che può comprendere: bambini, genitori e nonni non in fascia produttiva, disabilità di tutti i tipi… Più figli, maschi che possano emigrare in paesi ricchi preferibilmente, equivalgono ancora a più risorse per tutta questa fetta gigantesca di popolazione.

Dato che l’impronta ecologica media di un statunitense è pari a quella di 36 indiani, dunque 35 indiani in più sarebbero ecologicamente più sostenibili di un solo statunitense?

Proviamo invece a rileggere il problema in un’ottica diversa attraverso un altro dato statistico: l’impronta ecologica aggregata a livello globale della produzione di energia, della cementificazione e dei trasporti – che consumano spazio all’agricoltura, inquinano l’ambiente, causano mutamento climatico ed impoveriscono la biodiversità – pesa per il 70% rispetto al resto delle attività umane. Ne dovrebbe conseguire che il vero problema sono i metodi di produzione sbagliatissimi e la volontà di dominio dell’uomo sull’uomo e sulla natura, non solo i limiti intrinseci legati alla disponibilità di risorse naturali – che annovera fonti non rinnovabili ed implica la preservazione di delicati e complessi equilibri ecologici -, o la scelta etica individuale di noi consumatori. Meno poveri, meno ricchi, più sanità pubblica, più educazione, più democrazia, sono in conflitto con i privilegi della classe padronale, che dirotta le risorse pubbliche in una logica assistenziale a beneficio di pochi, pochissimi ed esternalizza i danni su molti, moltissimi – a cui si imputano le responsabilità morali (sprechi, inquinamento, troppi figli). L’industria culturale infatti si sta accaparrando sempre più spazio comunicativo a suon di pink washing, green washing, black washing..

E’ auspicabile che la popolazione, sic rebus stantibus, non accresca ulteriormente. Siccome non si può imporre un controllo delle nascite imponendo iniqui comandi dall’alto su certe popolazioni (come la Cina fino a qualche mese fa), si deve agire cambiando politicamente il sistema, diffondendo una cultura incompatibile con la struttura teologico-capitalistica attuale. Agire politicamente nell’educazione e nelle forme di resistenza più opportune per ottenere laicità, scuola, sanità, reddito, parità di genere. Non si può di certo sottovalutare la dimensione culturale: religioni, famiglie patriarcali, inaccessibilità alla sfera dell’attività pubblica delle donne… il femminismo anche qui è una battaglia centale.

Un dato statistico affine mostra come il Belpaese esporti più migranti italiani di quanti ne “accolga” entro i propri confini. Una statistica demografica che confuta affermazioni da nazional-socialismo quali “non abbiamo spazio” e – ragionamento conseguente – “troviamoci un posto al sole”. L’Italia è da tempo in calo demografico: si figlia meno, l’aspettativa di vita scende.

L’urbanizzazione ha causato uno squilibrio a favore della città. I nuclei delle famiglie contadine numerose (che – come racconta la nonna – non hanno mai patito la fame, al contrario di quelle operaie) si sciolsero, i figli andavano in città per una vita migliore, per un salario fisso, mentre nei campi si usava sempre più la chimica (regalo della riconversione post-bellica) e la meccanizzazione. Negli anni ‘60 il dato degli abitanti censiti di Trieste si attestava a più di 270.000 persone, mentre ora si attesta più o meno sui 200.000 abitanti. Infatti, le unità abitative sfitte a Trieste si calcolano sulle 40.000 unità.

Siamo ancora convinti che ora non ci sia più spazio per altra umanità? E’ lecito pensare che il problema risieda altrove? Siamo sicuri di non partecipare ad un discorso che si traduca in una guerra fra poveri? Pensiamo che l’essere umano sia incurabilmente malvagio o che siano le strutture gerarchiche a impedirne la liberazione?

Non mi stupirebbe che un’umanità liberata possa raggiungere anche 10 miliardi di persone, ma lascio questo calcolo agli esperti.

un compagno del Caffè Esperanto di Monfalcone



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