«Ripartiamo dall’ecologia delle parole»: la battaglia (con ironia) delle influencer disabili – L’Espresso

«Ripartiamo dall'ecologia delle parole»: la battaglia (con ironia) delle influencer disabili
Benedetta De Luca

Consigli sul lavoro, l’amore, il guardaroba, il fascino. Inattaccabili, perché vissuti sulla propria pelle. Elogio e cultura delle differenze. Un fiume di parole, immagini e video dal sapore incoraggiante, per conferire visibilità a chi ancora non ne possiede a sufficienza. Anche il mondo dei disabili ha i suoi influencer, ma i loro messaggi sono di tutt’altro genere. Bando a ogni culto del lusso, del successo, del denaro facile, della superficialità über alles; spazio ai valori della solidarietà, del mutuo soccorso, del riscatto individuale e collettivo. Alla lotta contro pregiudizi e dogmi estetici corrosivi. Non abdicando, però, dall’intrattenimento leggero, alla cifra specifica di Instagram.

Raccontano della propria condizione, delle varie forme di resistenza adottate, ma non rinunciano a mostrare gli aspetti più piacevoli della loro quotidianità. Una “normalità” faticosa, fatta tuttavia pure di vacanze e ginnastica, cagnolini festosi, bikini in spiaggia e sole in montagna, nuotate e scene di coppia. Momenti lievi e lieti nonostante tutto. Esperiti con una consapevolezza nuova. Per dirla con Alex Zanardi: «Quando mi sono risvegliato senza gambe ho guardato la metà che era rimasta, non quella andata persa».

Lasciamo qui da parte stelle internazionali come la modella brasiliana Paola Antonini, 2,7 milioni di followers e tuttora in passerella con le sue protesi artificiali al posto della gamba sinistra amputata; o la nostra campionessa paralimpica Bebe Vio, seguita da 966 mila utenti. Tra le più conosciute disability influencer italiane c’è Giulia Lamarca, 53 mila followers: è sulla sedia a rotelle da nove anni, ma le sue foto trasudano libertà e una contagiosa joie de vivre. Ventinove anni, è una travel blogger e posta i suoi viaggi avventurosi dalle Ande al Giappone alla Thailandia col marito Andrea, un fisioterapista che incontrò nei nove mesi in ospedale dopo l’operazione.

Giulia Lamarca
Giulia Lamarca

Laura Miola, 30 anni e più di 68 mila seguaci virtuali, è soprannominata l’“influencer della positività”. Si definisce una moglie e una “mamma seduta”, perché in carrozzina a causa di una malattia degenerativa. Ed è sempre sorridente. Benedetta De Luca, 33 anni, ha invece 71 mila followers e ha fondato un brand, “Italian Inclusive Fashion”, «per diffondere l’universalità della moda e la voglia di creare una collezione di abiti femminili eleganti ma pratici per chi ha una disabilità. La bellezza può manifestarsi in tanti modi, non solo in un corpo perfetto».

L’autoironia è la sua bussola, la sua pacifica arma, con cui demistifica cliché duri a morire persino tra le ultimissime generazioni. Come nel video in cui elenca i presunti benefit del mettersi insieme a una disabile: «Puoi parcheggiare vicino, andare ai concerti gratis, saltare la fila alle poste». Spiega all’Espresso: «Gioco sulla mia natura, ma qualcuno mi ha accusata: “Non si scherza sulla disabilità!”. Questa frase mi ha fatto capire come ci siano ancora parecchi tabù da sradicare».

Diciotto interventi chirurgici alle spalle, costretta su una sedia a rotelle, pratica e predica il think e body positive. I social sono stati, per lei, una piccola grande catarsi. «Se usati con coscienza e intelligenza, sono uno strumento potente per ricercare una nostra autentica inclusione sociale». Dalla piena attuazione della legge 104 all’abbattimento, oltre alle barriere architettoniche, di quelle mentali.

Siamo alla fine del 2020, e continuano a proliferare convinzioni ottuse e stucchevoli «del tipo: “Poverina: sei bella, peccato tu sia disabile”», aggiunge Benedetta. Che si sommano alle indagini pruriginose su come possano, i diversamente abili, fruire di una vita sessuale come chiunque altro. «Alle volte mi chiedono: “Chi è quel ragazzo vicino a te? Il tuo badante?”. No, è il mio fidanzato». E se è vero che, su Internet, si mira a ostentare un’esistenza patinata, lei punta sulla realtà. «La disabilità fa parte di me e diffonderla su Instagram non mi ha penalizzata, anzi».

Le scrivono coetanee che non riescono ad accettarsi davanti allo specchio e «genitori di figli piccoli disabili: mi ringraziano, perché restituisco speranza». Poi ci sono i soliti haters, che non risparmiano i loro profili. Del resto abitiamo in un’epoca dove la concorrente di un noto reality show dà del «mongoloide» a un altro partecipante. I termini della disabilità (nella fattispecie, la sindrome di Down) branditi come epiteti dispregiativi. Bisognerebbe ripartire da qui: dal linguaggio, dall’ecologia delle parole. Sia online che offline.

&© Riproduzione riservata 16 dicembre 2020


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